PRECAUZIONE E SFIDA IL LAVORO AL TEMPO DEL RISVEGLIO
La situazione precedente
Il momento storico in cui ci ha trovati la pandemia non era esattamente un’età dell’oro: la nostra società era alle prese con il declino della modernità, centrata sul dominio dell’uomo su sé stesso e sulla natura, oltre che sul perseguimento di uno sviluppo continuo e incrementale a carattere prevalentemente materiale. Molti fattori – crisi economica, migrazioni, eventi sismici, terrorismo – avevano già scosso decisamente queste certezze ed avevano portato ad una condizione di stagnazione economica come effetto di una crisi culturale, il cui centro è rappresentato dal non sapere in cosa credere e non vedere con speranza il futuro.
Il tratto tipico di questa condizione è la disunione ovvero la frattura sociale propria di un contesto incerto su ciò che ha valore, insieme alla frattura che attraversa dal di dentro la stessa persona, incapace di riunificare i pezzi della propria esistenza.
I fattori oggettivi del cambiamento del lavoro
A seguito della minaccia pandemica, ogni organizzazione ed ogni lavoro deve cambiare radicalmente la sua modalità d’esercizio, e ciò sta già avvenendo con grande velocità secondo queste linee:
– salute pubblica: sanificazione degli ambienti, delle attrezzature e delle suppellettili, dispositivi (mascherine, disinfettanti antibatterici, guanti), misurazione quotidiana della temperatura col termo scanner, pronto soccorso e supporto medico, figure addette al controllo del rispetto delle procedure;
– smart working (lavoro agile), ovvero il trasferimento presso la propria abitazione delle attività lavorative che non necessitano della presenza nell’ambiente dell’ufficio o della fabbrica;
– trasporti: riduzione al minimo degli spostamenti, regole di distanziamento, dispositivi e sanificazione nei mezzi pubblici;
– digitalizzazione riguardo alle procedure di lavoro, alle riunioni che non richiedono la presenza, alla progettazione, alla gestione delle relazioni standard, alla compilazione delle documentazioni…
In questa trasformazione, ci si rende conto che molte attività in presenza non erano propriamente necessarie; che da casa (salvo problemi di tecnologie, spazi e convivenza…) certe cose si fanno meglio; che si riducono gli spostamenti e le spese per ambedue le parti. Ma soprattutto che si è reso più chiaro in cosa consiste il cuore del lavoro: fare squadra, condividere, confrontarsi, cooperare, fronteggiare i problemi, valorizzare le opportunità, tutto questo in rapporto ad uno scopo buono dell’organizzazione e che richiede sensibilità e coesione, mobilitando così i fattori “fini” dell’agire economico.
Possibile rinascita
L’evento della pandemia, oltre ai cambiamenti “imposti” alle organizzazioni ed al lavoro, può portare ad un nuovo immobilismo se prevalesse il principio di precauzione, dominato dal sentimento della paura, rispetto al principio della sfida di civiltà, mosso dalla virtù del coraggio. Ecco ancora un pensiero di Simone Weil: “La protezione degli uomini contro la paura e il terrore non implica la soppressione del rischio; implica invece la presenza permanente di una certa quantità di rischio in tutti gli aspetti della vita sociale; perché l’assenza di rischio indebolisce il coraggio al punto da lasciar l’anima, in caso di bisogno, senza la benché minima protezione interiore contro la paura».
Quindi, questa tragedia porta con sé una possibilità positiva: può essere l’occasione di un’importante trasformazione degli stili di vita delle nostre società ad alta complessità (e caos). Questi riguardano innanzitutto il superamento di una concezione della vita tutta centrata sulla propria sfera soggettiva, dove i bisogni, le preferenze ed anche i capricci sono diventati imperativi morali in forza di una concezione distorta dei diritti. Quella visione criticata da Simone Weil secondo cui occorre spostare l’asse culturale e politico dall’insistenza sui diritti a quella sui doveri, compresi quelli verso sé stessi, primo tra tutti quello di sentirsi obbligati verso ogni uomo a rispettare il suo grido universale, quanto più la debolezza della sua condizione lo rendesse impercettibile: «Perché mi viene fatto del male?». Occorre fondare la società sul riconoscimento della dignità inviolabile di ogni esser umano: «C’è nell’intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza dei crimini connessi, sofferti e osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male. È questo prima di tutto, che è sacro in ogni essere umano».
Ciò conduce alla scoperta del senso di comunità ed alla responsabilità sociale, che discende dal fatto che siamo per natura esseri sociali interdipendenti e che la cura primaria che dobbiamo perseguire è rivolta alla conservazione e sviluppo dei legami con gli altri e dello spazio comune. si tratta del passaggio da individui autocentrati a persone costituite dei legami che ci rendono pienamente esseri umani.
Allo stesso tempo, la trasformazione culturale sollecitata dalla pandemia può suscitare nelle imprese la consapevolezza di essere un soggetto in grado di apportare valore alla società, ponendo il primato sul proposito che intende servire. Questo si propone come fattore di identificazione che crea un legame reciproco con il proposito personale degli individui che ne fanno parte, come afferma Laloux: «Uno ha bisogno dell’altro per fiorire»: l’organizzazione per uscire dall’auto-conservazione ed assumere il profilo proprio di un organismo vivente, e le persone per uscire dalla prospettiva della mera sopravvivenza ed esplorare la propria vocazione rispetto al mondo («che cosa mi sento realmente chiamato a fare in questo momento della mia vita?».
Le “organizzazioni con l’anima” non rappresentano l’ennesimo manuale per «fare le cose nel modo giusto», ma si concentrano sul «fare la cosa giusta», ovvero imprese che perseguono scopi di valore, basate sul principio dell’auto-organizzazione, che coltivano il senso umano del lavorare insieme, possiedono un respiro più naturale, meno meccanico e strumentale e più umano e più di buon senso.
Ciò porta ad una diffusione di lavori “buoni”. Sono tali quando procurano un beneficio reale alle persone (le rende maggiormente capaci di libertà positiva), alla comunità (favoriscono i legami, la solidarietà, l’impegno comune) ed all’equilibrio ecologico (perseguono la sostenibilità e la cura del territorio). Quando sono fatti a regola d’arte, secondo i migliori criteri della qualità. Quando sono sicuri (rispetto della vita), portano con sé il segno (estetico), l’impronta riconoscibile dell’autore. Quando sono affidabili, ovvero fondati su una relazione duratura dove il cliente è posto al centro dell’attenzione di chi opera.
Risonanza e sensibilità
La capacità di non identificarsi con il proprio ego, il non essere più un tutt’uno con esso, la possibilità di ampliare il nostro spazio vitale alla comunità nel rispetto dei doveri che abbiamo verso noi stessi e verso gli altri, la cura dei legami di comunità, l’assunzione da parte delle imprese del proprio scopo evolutivo e la diffusione di stili di lavoro “buono”, possono essere i fattori di spinta che consentono di far fare un salto al nostro modello economico, tramite la trasformazione del concetto di proprietà in stewardship o «gestione responsabile delle risorse», oltre che dei rapporti tra consumatori e produttori.
Quando il profitto non è più l’elemento attorno al quale tutto gira, ma rappresenta l’indicatore di una sana gestione dell’impresa, si provoca un salto in avanti nella consapevolezza tra produttori, consumatori e coloro che si occupano della circolazione delle merci verso un modello di “economia associativa”». Essa è caratterizzata dallo stretto legame tra libere attività non-profit, un’economia privata di libera impresa che scopre le proprie motivazioni sociali e un’economia pubblica efficiente, capace di avviare processi di gestione mirati al risultato e finalizzati alla programmazione strategica.
Dov’è il nemico, e come lo si combatte?
Ma per evitare di cadere nell’utopia, o nel puro angelismo, occorre chiedersi quali sono i nemici di questo cambiamento, esterni ed interni a noi, e quali capacità di combattimento dobbiamo apprendere per vincerne la resistenza.
Professor Dario Nicoli
(docente di sociologia economica, del lavoro e dell’organizzazione, Università Cattolica di Brescia)